Carrère e “il processo del secolo”

di Valerio Iannitti

Copertina del libro
(Fonte: Adelphi)

V13 sta per venerdì 13. Venerdì 13 novembre 2015. Il giorno in cui, un po’ come l’11 settembre, ricordiamo dov’eravamo. O meglio, la sera: quella degli attentati di Parigi, dove venivano uccise 130 persone e ferite circa 350 in alcuni bistrot e al teatro Bataclan, mentre era in corso il concerto degli “Eagles of Death Metal” (andò meglio fuori lo Stade de France, dove si giocava Francia-Germania e dove morì il solo attentatore che si fece esplodere).

V13 nasce dagli appunti presi da Emmanuel Carrère in nove mesi di processo: a partire dalle testimonianze delle vittime (i parenti delle persone morte e i sopravvissuti) e dalla difesa degli imputati fino ad arrivare alla decisione della Corte. Gli appunti sono stati man mano pubblicati per il Nouvel Observateur e ripresi da varie testate nel mondo (in Italia dall’inserto de La Repubblica, Robinson).

Il libro si sviluppa dunque in tre parti: le vittime; gli imputati; la corte.

“Dove comincia la follia, quando c’è di mezzo Dio? (…) Ho cercato di capire perché dei giovani decidono di sparare contro altri giovani. Non l’ho ancora capito, forse non c’è nulla da capire”, afferma l’Autore.

La scrittura riesce a essere priva di retorica o moralismo, cruda nelle testimonianze delle vittime nella prima parte, lucida nell’analisi delle situazioni degli imputati, mettendo continuamente in dubbio alcune nostre idee.

A un certo punto nel libro si cita Simone Weil: “Il male immaginario è romantico, romanzesco, vario; il male reale incolore … desertico, noioso. Il bene immaginario è noioso; il bene reale è sempre nuovo, meraviglioso, inebriante”. Per cui, si chiede Carrère: “Si parla troppo, e con troppa compiacenza, del mistero del male. Essere disposti a morire per uccidere, essere disposti a morire per salvare: qual è il mistero più grande?”.

I volti delle vittime
(fonte Repubblica)

Le vittime, innanzitutto. 

Nelle prime battute vi è subito una frase del Presidente che appare infelice: per non ingolfare il processo, se possibile, chiede di evitare ripetizioni inutili (“Come si fa a evitare ripetizioni inutili di fronte all’accaduto di ognuno?”, si chiede Carrère).

La prima parte a tratti sembra sconfinare nella pornografia della tragedia, ma è tutto talmente vero da non risultare in tal senso stucchevole (a parte la ripetizione forse eccessiva dell’espressione “coriandoli di carne umana” – almeno tre o quattro volte – ad indicare la pioggia che ha investito gli spettatori del Bataclan dopo che gli attentatori si sono fatti saltare in aria). A tratti si fatica a proseguire la lettura, sì, ma perché ci si sente contorcere le budella o si fatica a trattenere le lacrime. Ma appare un resoconto comunque doveroso, necessario per riportare la disperazione di quei momenti.

Ci sono anche storie di false vittime, che hanno millantato di essere lì ma non c’erano (è stato scritto un libro solo su di loro), ma c’erano soprattutto le tante vittime reali, e con loro i sensi di colpa dei sopravvissuti. Ci sono, poi, le persone che non si sono mai riprese davvero; il ragazzo entrato in paranoia convinto di avere un tumore che non aveva e alla fine morto suicida (“il centrotrentunesimo”); quello che, in una situazione dove “una parola, sei morto, uno sguardo, sei morto, il telefono che ti squilla, sei morto”, per motivi incomprensibili viene graziato e ritenuto “uno di noi”. Ancora, quello che per tre anni non ricorda nulla, a parte il fatto di vivere in un perenne malessere, “incubi senza immagini”, salvo poi – a seguito di una terapia a base di EMDR – ricordare tutto, e ricordare che in quel frangente, pur di fuggire, ha calpestato altri corpi, vivi o morti che fossero, ed è costretto a vivere con quest’incubo che lo rincorre giorno e notte (“altri sono stati eroici, lui no”). Quelli rifugiati in uno scantinato del Batalcan, che quando sono stati tratti in salvo, per ultimi, sono stati invitati a non guardare. E invece hanno guardato. 

Sempre nella parte dedicata alle vittime, tra le altre cose emerge, dal loro racconto, una sorta di “mistero del bene”: sembra affiorare in molte testimonianze la volontà, pur in una situazione di “mors tua vita mea”, di aiutare il prossimo. Comportamento che sembra stridere con vicende in qualche modo simili: l’Autore fa un paragone con il caso del Titanic, quando ognuno pur di salvare la pelle non ebbe remore nel mettere in mare scialuppe semivuote. Qui, invece, si tenta di salvare il prossimo a rischio della propria vita. Realtà o narrazione collettiva, magari frutto di un processo di autoconvinzione?

Le reazioni delle vittime sono spesso assai diverse, distinte tra quelle volte all’odio e quelle improntate a un dialogo che alcuni riterrebbero impossibile. Alcune rivendicano appunto il loro diritto all’odio, compresa magari la voglia di vedere morti i colpevoli. Altri la vedono diversamente: il padre di una ragazza uccisa, ad esempio, è finito a scrivere un libro con il padre di un attentatore morto suicida al Batalcan. Il libro si chiama Il nous reste les mots, i due padri sono A. Amimour e G. Salines: “cos’è peggio? Avere un figlio assassino o una figlia assassinata?”.

Fiori fuori il Batalcan
(Fonte: Agi)

Gli imputati, poi.

Molti imputati hanno avuto ruoli minori, tant’è che si gioca parecchio sul “chi sapeva cosa”, e gli avvocati vogliono provare che i loro assistiti (chi ha guidato un’auto, chi ha provveduto a fare altre cose) non fossero a conoscenza dei fini terroristici.

La “star” è Salah Abdeslam, l’unico attentatore sopravvissuto. Per problemi tecnici? Per paura? Lui dice per un sussulto di umanità, alla fine non ce l’ha fatta, e non avrebbe ammazzato nessuno. Verità? Chissà. Le domande, del resto, sono molte di più delle risposte.

Dice Abdeslam che Parigi piange i propri morti, ma le decine di migliaia di morti siriani non li piange nessuno. “Raggiungere nella morte le persone che abbiamo ucciso o sganciare le bombe da un aereo senza correre alcun pericolo: da che parte sta il coraggio?”. E afferma che “tutto quello che dite su noi jihadisti, è come se leggeste l’ultima pagina di un libro. Dovreste leggere il libro dall’inizio”.

È proprio l’individuazione dell’inizio uno dei problemi (che poi vale sempre, anche per l’Ucraina, per esempio, dice Carrère).

E quale sarebbe quindi questo inizio? La fine dell’impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale, come ha suggerito uno degli imputati? La sconfitta a Vienna nel 1683? No, è la guerra in Siria, suggeriranno gli avvocati difensori, che vorranno sostenere che alla base dell’adesione all’ISIS c’è la politica prima che la religione, e che la causa degli attentati non è appunto la religione, ma la guerra, e non si è al cospetto di atti di terrorismo ma, al più, di crimini di guerra.

Si parla degli affiliati all’ISIS, della strategia del terrore che prevede periodi di stragi ed altre di silenzio (“taqiyya”), dove si cerca di mascherarsi e di apparire integrati nella cultura europea. Si parla dei problemi di Molenbeek, quando, nel ’69, il governo belga affidò l’amministrazione del culto islamico a un Paese “neutrale” come l’Arabia Saudita, definita da qualcuno “un ISIS che ce l’ha fatta”: “pessima idea”, ritiene l’Autore.

Insomma, ci sono vari inizi possibili.

Schizzo del processo, con Salah Abdeslam che domina su una veduta generale dell’aula
(Fonte: Repubblica)

E c’è una fine. La sentenza: “All’inizio si depone la sofferenza, alla fine si rende giustizia”. O ci si prova.

Infine: la Corte, gli avvocati, lo Stato di diritto.

Con riferimento alla Corte, innanzitutto va ricordato come essa sia composta, in materia di antiterrorismo, unicamente da magistrati professionali e non da una giuria popolare come avviene normalmente nei processi penali.

Inoltre, il processo contempla, ovviamente, la presenza di chi i terroristi li difende. E allora si può chiedere a un avvocato se non ci sia un limite alle persone che si difendono, qualcuno che ci si rifiuterebbe di difendere. La risposta rilasciata è stata – sintetizzando un po’ – la seguente: “non difendo nessuna causa, ma non rifiuto nessun imputato. Non sono d’accordo con gli imputati a differenza di Verges che approvava la loro causa (quella di Pol Pot o di Carlos). Non difendiamo la pedofilia o il terrorismo, ma siamo disposti a difendere un pedofilo o un terrorista. Fare l’avvocato è questo: fare tutto il possibile perché l’imputato sia processato sulla base del diritto e non delle passioni. Difficile dirlo meglio.

Al riguardo, Carrère evidenzia come la difesa delle vittime appaia nobile, mentre altra cosa è difendere i terroristi, nel qual caso “ci vuole passione, si deve amare la lotta. E poi c’è sempre qualcuno che identifica gli avvocati della difesa con gli assistiti, chi si somiglia si piglia”. Ma afferma anche che “una cosa che trovo bella del V13 è che questo pregiudizio è raro”.

Ci sono concetti abbastanza nuovi come quelli di “danno da lucida agonia”: quando sei consapevole che stai per morire, come in un aereo che precipita, e che “si manifesta tra sé e sé, o tra sé e Dio, per coloro che chiamano così la parte più profonda di sé”: un modo per trasformare l’emotività in diritto, senza lasciare che vada persa, e per quanto poco possa incidere sugli esiti del processo (ha una valenza, semmai, sul piano degli indennizzi).

Dice Carrère che spesso sembra convinto al cento per cento delle tesi dell’accusa, eppure qualcosa cade dopo aver ascoltato quelle della difesa; si insinua qualche dubbio, il che da una parte sembra un pregio, poiché può significare assenza di pregiudizi, dall’altra un difetto, perché può significare essere una banderuola sempre d’accordo con chi ha parlato per ultimo.

Dal punto di vista della giustizia astratta, restano aperti nodi difficilmente districabili. “Il primo è la condanna di Salah Abdeslam all’ergastolo ostativo, il massimo della pena, senza possibilità di usufruire né di sconti né di licenze. Se da un lato le vittime possono apprezzare una condanna esemplare verso chi ha partecipato a infliggere loro enormi sofferenze”, dall’altra – sostiene Carrère – “se fossero stati sotto processo i veri attentatori, colui che è scappato poco prima di commettere la violenza avrebbe avuto una pena molto più lieve”. 

Probabilmente di fronte al massacro cui ha preso parte va più che bene così.

Per concludere, V13 può essere considerato un libro che tratta di tante cose: di giustizia, sicuramente, o almeno di tentativi di fare giustizia laddove l’orrore è tale che sembra impossibile; di reazione ai torti subiti, compresa l’eventualità del perdono; ma anche in parte di geopolitica e di radici della radicalizzazione islamica (e non solo islamica). Quando si indossano gli occhi del nemico, per quanto esso abbia le sembianze del “mostro”, vengono inoltre a crearsi crepe che scavano nella narrazione propria dell’Occidente e che portano a zone grigie in cui non è sempre facile separare la ragione dal torto. In definitiva, V13 sembra essere soprattutto un libro dalle tante domande irrisolte che provano comunque a scavare nelle convinzioni intime di ogni lettore.

Lascia un commento