“Yolo economy” e brevi riflessioni in ordine alla misurazione della qualità delle nostre vite

di Valerio Iannitti

“Non si può effettuare un cambiamento fondamentale senza una certa dose di follia. In questo caso si tratta di non conformità: il coraggio di voltare le spalle alle vecchie formule, il coraggio di inventare il futuro”

(T. Sankara)

La pandemia ancora in corso ha inevitabilmente stravolto il nostro modo di pensare e di stare al mondo, con ripercussioni psicologiche oltre a quelle direttamente causate dalla malattia[1]. Tra l’altro, questo periodo ci ha fatto riflettere sul nostro stesso modo di vivere, accelerando talvolta processi mentali già in corso instaurandone di nuovi. Molti si sono resi conto di non voler tornare a vivere come prima e hanno realizzato che sarebbero disposti a farlo con meno a condizione di poterlo fare meglio: un’affermazione, questa, che – al di là della soggettiva concezione di ciò che significhi “meglio” –  può implicare una generale divergenza tra ricchezza materiale e qualità della vita.

In questo periodo di ulteriore aumento delle disuguaglianze sta accadendo, dunque, che mentre da una parte moltissime persone sono entrate in una difficoltà spesso drammatica legata alla perdita del lavoro, stiano dall’altra parte aumentando le dimissioni volontarie da parte di chi prende consapevolezza del livello insoddisfacente del proprio stile di vita. Ciò si sta verificando soprattutto oltreoceano, dove il mercato del lavoro è più fluido: da quelle parti lo hanno ribattezzato “Great Resignation” o “Big Quit”[2]. Il fenomeno avviene in conseguenza di situazione di burnout ma non solo: a seguito dell’inizio della pandemia, infatti, si registra anche il c.d. “illanguidimento” (languishing)[3],

Le cause del burnout sono state riassunte in sei punti: eccessivo carico di lavoro, cultura volta al continuo taglio dell’organico, scarsa autonomia dei dipendenti, mancanza di riconoscimento economico, clima vessatorio, mancanza di equità[4].

Il languishing, invece, si distinguerebbe sia dal burnout, perché le persone hanno ancora energie, sia dalla depressione, perché non vi è tanto disperazione quanto più una sensazione di stagnazione, fatica e assenza di benessere (“come guardare la propria vita attraverso un parabrezza appannato”)[5]. Ci si inizia a rendere maggiormente conto del peso della variabile tempo, giungendo pertanto alla consapevolezza di voler perseverare in qualcosa solo se conta davvero.

Numero di settimane di vita media di un essere umano (Fonte: NYT)

Ciò che sta avvenendo, in definitiva, è il tentativo di cercare maggiormente la soddisfazione e il benessere personale, anche per mezzo di modalità di lavoro come lo smart working, cui prima del Covid si faceva ricorso col contagocce[6]Ha senso, ad esempio, con la tecnologia del 2021, rinunciare a tempo per sé o per i propri cari o per il volontariato o per tante altre attività e impelagarsi in ore di pendolarismo ogni giorno per andare a prodigarsi in attività svolgibili anche da remoto?  È ovvio che ciò debba avvenire con i doveri e diritti del caso, meglio definiti rispetto a questo periodo emergenziale, ma è altrettanto vero che ormai sembra impossibile farne a meno, anche a prescindere da tale periodo che ci si augura sia destinato a finire presto. 

Questo nuovo approccio al lavoro e alla vita è stato ribattezzato “You-only-live-once” economy, abbreviato in Yolo economy, locuzione resa popolare dalla rock band statunitense The Strokes.

Immagine in evidenza:Roma, assembramenti sui mezzi pubblici (Fonte: il Quotidiano del Lazio)

Il fenomeno inizia a notarsi anche in Italia, ma occorre tempo per determinarne la reale portata e il vero significato. 

Per quanto i lavori d’ufficio vengano spesso ritenuti privilegiati rispetto ad altri maggiormente fisici e più pericolosi, anch’essi possono comportare una serie di conseguenze negative che si ripercuotono anche al di fuori del lavoro. D’altro canto, in tempo di Covid è emersa la frustrazione di chi ha dovuto far fronte alla mancanza di tutele del proprio impiego. Un esempio è L., partita IVA impegnata nel mondo della cultura, che d’un tratto, a causa della pandemia, si è trovata in una situazione infelice sul lavoro, ha perso il padre e infine è incappata in un nuovo capo che ha creato divisione. Un altro caso è F., a capo di una divisione di un’azienda di gioco e scommesse, che a un certo punto, a seguito di cambi al vertice, ha avuto il compito di trovare pretesti per fare lettere di richiamo, rendendo di fatto difficile la vita ai collaboratori. Quando si è messo di traverso, la vita è stata resa difficile a lui. In seguito, “grazie” al lockdown, ha potuto riscoprire il tempo in famiglia e si è potuto disintossicare dal lavoro, del quale ora non vuole più sentir parlare[7].

Quello in atto potrebbe essere un fenomeno soltanto temporaneo, consequenziale ad un mercato del lavoro “congelato” per molti mesi (sia per motivi di andamento del ciclo economico sia per le politiche pubbliche adottate per fronteggiare la crisi, come la cassa integrazione Covid), oppure a dimissioni programmate, ma rimandate durante la pandemia, o ancora a dimissioni forzate dai datori di lavoro di fronte a una contrazione dell’attività economica e a politiche quali il blocco dei licenziamenti. Occorre quindi vedere se questo tasso di dimissioni persiste e, in caso, di quali lavoratori si tratta e di come evolve la loro storia, lavorativa o meno. Conoscere questi dati aiuterà anche ad “accompagnare e gestire i nuovi trend nel mercato del lavoro, per incrementare i livelli di produttività del nostro paese e garantire maggior benessere ai lavoratori”[8].

Verso l’approccio della Yolo economy vi sono ovviamente anche critiche, tra le quali ad esempio quella de Il Sole 24 Ore (non a caso in un pezzo intitolato “La YOLO economy distruggerà più aziende del Covid”[9]), che lo bolla come approccio alla vita di tipo sostanzialmente epicureo basato sul mero divertimento che non considera impegno e fatica per raggiungere degli obiettivi, e che nei fatti è comprensibile (solo? nda) in quanto consequenziale al disordine post-traumatico generato dal Covid. Questa nuova visione riguarda soprattutto i millennials. Ci si chiede, dunque, “se i millennials preferiscono la YOLO e la generazione x è troppo giovane, chi guiderà e lavorerà con ardore nelle imprese nei prossimi 10 anni? Un management non digitale che non riesce a capire clienti, processi e mercati? Un management di teenager alle prime esperienze lavorative? Gli unici che possono farlo, per ragioni anagrafiche e culturali sono i millennials” cui però ciò non interessa, poiché “la YOLO non ammette stress e fatica, richiede solo di godersi l’attimo”. La Yolo viene definita, pertanto, come un virus (“Rinunce alla carriera (…),pochi sacrifici. Passaggio da un posto di lavoro all’altro con impulsività alle prime tensioni. Conta la voglia di evasione, la leggerezza, il godersi l’attimo. Altro che target e lavorare fino a tardi”) nei confronti del quale si spera si possa trovare un vaccino. Non si sa se l’Autore del pezzo sia a conoscenza, ad esempio, che negli ultimi 30 anni i salari sono cresciuti ovunque in Europa tranne che in Italia (anche a causa dell’alto costo del lavoro, ribatterebbero in parte legittimamente i datori di lavoro)[10], e non si sa dunque se prenderebbe in considerazione, nel vaccino che auspica, anche migliori condizioni di vita e di lavoro, o se queste vengono solo dopo il dogma della produttività senza se e senza ma: l’apparente aprioristica colpevolizzazione della mancata voglia di “lavorare fino a tardi” non sembrerebbe lasciare ben sperare.

Roma, traffico in strada (Fonte: Ansa)

Ad ogni modo, le questioni di cui sopra aprono degli interrogativi: possiamo permetterci – qualora lo volessimo – di vivere meglio il nostro tempo limitato, magari lavorando tutti e lavorando meno, e al contempo aumentare anche la produttività? In effetti, a ben vedere, si sta valutando di farlo, oltre che in alcuni Paesi del Nord Europa, addirittura in un Paese notoriamente stacanovista come il Giappone[11]. O, se vogliamo osare ancora di più: siamo davvero obbligati, come società e come sistema economico, a produrre e consumare sempre di più, o è il caso di porre maggiore attenzione ad altri aspetti della nostra vita? In definitiva, dobbiamo crescere all’infinito in un pianeta finito o possiamo scrollarci di dosso il dogma del PIL?

Questo punto richiede un ulteriore passaggio: ci sono, infatti, alcune leggi che vengono considerate immutabili, ed una di queste consiste proprio nel misurare il nostro benessere rispetto a quanto produciamo e consumiamo per il tramite del Prodotto Interno Lordo (PIL), prescindendo da come realmente viviamo. È così che giudichiamo il nostro benessere, dopo che le teorie di John Maynard Keynes prevalsero su altre, come ad esempio quella di Simon Knuznets: quest’ultimo, per valutare i beni e i servizi prodotti dall’economia, intendeva escludere quelli derivanti da aspetti negativi (pendolarismo, pubblicità, inquinamento, eccetera). Keynes sosteneva che bisognava valutare tutte le attività basate sul denaro. Prevalse la sua tesi che, oltre a conteggiare anche “cose brutte”, non ne conteggiava di auspicabili (tempo libero, lavoro domestico, tempo dedicato ai parenti malati, cibo coltivato in casa, eccetera). 

Nel frattempo il mondo è cambiato, ma – malgrado già nel ’68 in un celebre e magnifico discorso, Robert Kennedy provò a mettere in discussione quei parametri[12] – la misura della qualità delle nostre vite è rimasta ancorata al passato. 

Bisognerebbe maggiormente prendere atto del fatto che la felicità dipenda dalla ricchezza solo fino ad un certo livello di reddito (ampiamente superato nei Paesi ricchi), per poi svincolarsi: sul punto basti notare che i cittadini dei Paesi europei, pur vivendo con minore ricchezza, danno risultati migliori, rispetto anche a Paesi con PIL maggiore, nella misurazione degli indicatori di felicità (da prendere ovviamente con le pinze visto che la stessa felicità non è misurabile; sarebbe meglio parlare di indicatori di qualità della vita). La questione è stata affrontata, tra gli altri, anche da Easterlin: il “paradosso” che porta il suo nome intende affermare che quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità umana aumenta fino a un certo punto, ma poi comincia a diminuire. Ciò accadrebbe fondamentalmente per tre motivi: il benessere dovuto all’acquisto di un nuovo bene di consumo è temporaneo (hedonic treadmill); maggior consumo comporta maggiori aspettative, e nei fatti non si è mai soddisfatti a lungo (satisfaction treadmill); il benessere che traiamo dal consumo dipende soprattutto dal valore relativo del consumo stesso, cioè da quanto esso è differente da quello delle altre persone con le quali ci confrontiamo (positional treadmill)[13].

Per attenuare questa “tirannia del PIL” si stanno già usando, affiancandoli al PIL, indicatori quali il GPI, Genuine Progress Indicator, che rispetto al PIL scartano la ricchezza “negativa” e considerano attività positive che non creano lucro. Tali indicatori non dovrebbero obbligatoriamente sostituirsi al PIL, ma quantomeno affiancarlo[14].

Questo discorso però è valido finché si parla del settore pubblico, ma non risolverebbe comunque la questione dell’ambizione al profitto privato, che si porta dietro poi la questione del debito e del fractional reserve banking, in base alla quale le banche di fatto prestano denaro che non possiedono, essendo obbligate a tenere solo il 10% del denaro che danno in prestito[15].

Deforestazione nell’Amazzonia (Fonte: Repubblica)

Il tema non può ovviamente essere sviscerato in modo più approfondito in questa sede, dove ci si vuole più che altro limitare a tentare di mettere in discussione ciò che è apparso per decenni indiscutibile. Se ne inizia però a parlare anche in televisione, come ad esempio è stato fatto in modo molto efficace nella puntata di Rebus di domenica 14 novembre 2021, alla presenza dell’economista Jean-Paul Fitoussi, che dopo aver scritto, insieme a Joseph Stiglitz ed Amartya Sen, il saggio “La misura sbagliata delle nostre vite”, è appena uscito in libreria con un nuovo lavoro, “Misurare ciò che conta”, nuovamente con Stiglitz e con Martine Durand[16].

A seguito dei dati che stanno venendo fuori sulle dimissioni volontarie, si sta parlando anche di chi osa cambiamenti radicali di vita. L’argomento è stato affrontato ad esempio nella puntata di Uno Mattina del 6 novembre 2021, alla presenza anche di un ex manager che da 13 anni ha deciso di ritirarsi a vita privata in una sperduta isoletta greca, dove vive col poco che a suo dire basta a rendere felice lui e sua moglie[17]. Per molti un cambio di vita estremamente radicale ed impensabile, per loro la svolta della vita.

In definitiva, appare evidente il contrasto tra come, a livello macro, misuriamo il nostro benessere come collettività e come sistema economico globalizzato, e cosa invece a livello micro intendiamo per benessere con riferimento a noi stessi e a ciò che consideriamo importante.

Bernard Russel sostiene che una condanna della nostra civiltà, mai verificatasi prima, consiste nel fatto che “gli uomini non saprebbero come riempire le loro giornate se lavorassero solo quattro ore al giorno”[18]. Nella speranza che ciò non sia del tutto vero, ciò su cui si dovrebbe probabilmente spingere è una maggior enfasi sulla qualità della nostra vita, al lavoro e al di fuori del lavoro, cercando di misurare (per quanto possibile) o comunque di valorizzare aspetti che ora vengono ignorati. Misurare quanto produciamo e quanto consumiamo ci dice solo poco di quanto stiamo bene o male, e se l’obiettivo è vivere meglio il nostro tempo e non il consumo in sé, allora forse dobbiamo cambiare il nostro approccio ad alcune questioni basilari.


[1] https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/neuroscienze/londa-lunga-della-pandemia-sulla-salute-mentale

[2] https://www.bloomberg.com/news/articles/2021-05-10/quit-your-job-how-to-resign-after-covid-pandemic

[3] https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2021/11/18/illanguidimento

[4] C. Maslach, Burnout: the cost of caring, Malor Books, 2011, cit. ne “L’essenziale”, Il nuovo rifiuto del lavoro, n. 2, anno 1, 13 novembre 2021.

[5] https://blogs.dal.ca/healthydal/2021/04/26/theres-a-name-for-the-blah-youre-feeling-its-called-languishing/

[6] Così S. Sangiorgi, dell’Ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna, in https://www.huffingtonpost.it/entry/mi-licenzio-basta-compromessi-e-lanno-delle-dimissioni_it_61829804e4b0a518ac9a0934

[7] “L’essenziale”, cit.

[8] https://www.lavoce.info/archives/90466/si-apre-la-stagione-delle-grandi-dimissioni/

[9] https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2021/10/20/yolo-covid-trauma/

[10] https://www.openpolis.it/quanto-guadagnano-in-media-i-cittadini-europei/

[11] https://tg24.sky.it/economia/2021/10/13/modellosettimanalavorativacorta e https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/07/09/non-solo-islanda-anche-il-giappone-sosterra-la-riduzione-dellorario-di-lavoro-e-litalia/6255893/

[12] https://www.youtube.com/watch?v=WDxUrJ-LwiI

[13] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_di_Easterlin e  https://www.ilsole24ore.com/art/l-economia-felicita-e-paradosso-easterlin-ACa4mQk

[14] https://www.linkiesta.it/it/article/2019/03/16/ecco-perche-il-pil-e-stupido-e-obsoleto-lo-ha-capito-pure-la-cina/41437/

[15] J. Hickel, cit.

[16] https://www.raiplay.it/video/2021/11/Rebus—Puntata-del-14112021-d32324a0-ca33-4a10-b975-5b592b152eb8.html  

[17] https://www.raiplay.it/video/2021/10/UnoMattina-in-famiglia-c55aa79b-d923-42b5-b617-a432b3c76346.html

[18] B Russel, L’elogio dell’ozio, pag. 22.

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