di Valerio Iannitti
Quel giorno era sciopero dei mezzi. Non ricordo che giorno fosse, ma mi viene da pensare che fosse venerdì.
Venerdì è quasi sinonimo di sciopero dei mezzi, a Roma. Soprattutto quando piove.
Non capisco perché così tanti scioperi: non che sia contro a prescindere, sia chiaro, ma sarebbe interessante conoscerne i motivi, tanto per poter dire d’essere d’accordo o meno e al fianco o meno dei lavoratori. Ma le ragioni non si conoscono quasi mai e la gente s’incazza.
Non capisco poi perché piove quasi sempre, ma ne prendo atto. E la gente si incazza.
Credo di comprendere invece perché sempre di venerdì. Mi pare fin troppo facile. Se l’obiettivo dello sciopero è creare disagio, quando dovrebbero farlo, martedì notte? E perciò non afferro quelli che si accaniscono dicendo che gli scioperanti vogliono solo allungarsi il weekend, quando poi magari sabato e domenica lavorano. Ecco, loro non li capisco. Ma questi che si accaniscono, il weekend immagino non lavorino, come me del resto.
Io, ad ogni modo, oramai ero un pendolare navigato e sapevo come muovermi: come giungere al lavoro prima dell’inizio dello sciopero, alle 8.30, e come sfruttare la fascia di garanzia del pomeriggio, tra le 17.00 e le 20.00.
Al ritorno dall’ufficio, quindi, mi orientai per avviarmi a piedi verso la metro intorno alle 18.00. “Così intanto i primi assalitori della metro nei primi minuti saranno stati smaltiti”- pensavo – “e sarà più o meno umano entrarci”.
Non pioveva da un po’, ma iniziavano a fare capolino i venditori asiatici di ombrelli pessimi, che abbiamo capito essere in contatto diretto con l’Aeronautica che li avverte pochi secondi prima della prima goccia d’acqua. A me mettono di buon umore perché sorridono sempre e si crea quel tacito accordo tra chi sa che ti sta rifilando una sola e chi sa che ti si vuole rifilare una sola. A breve, c’era da scommetterci, sarebbe iniziato a piovere. “Ma tanto a quel punto sarò già dentro”, pensavo.
M’avviai dunque in direzione della metro più vicina partendo dai paraggi di Largo Argentina, di cui scoprii l’enorme valore storico solo al momento di iniziare a lavorare a pochi metri da lì. Presi via delle Botteghe Oscure, costeggiai l’ingresso della Crypta Balbi e arrivai a Piazza Venezia nei pressi delle strisce pedonali. Il semaforo era giallo, ma il contatore dava pochi secondi al rosso e non ebbi la lucidità per il guizzo; durante i secondi di rosso gettai un occhio sulla destra alle luci del Campidoglio e alla scalinata dell’Ara Coeli. Uno stormo di storni, stanco di disegnare in cielo le più disparate figure con una danza leggiadra, prese possesso di un paio di malcapitati alberi. Chi si trovava sotto di loro apriva l’ombrello per fermare la pioggia scaturita durante quello schiamazzo.
Quindi scattò finalmente il verde e terminato il passaggio mi sorpresi a stupirmi per essere sopravvissuto ancora una volta. Quando quell’attraversamento pedonale di Piazza Venezia in penombra sarà catalogato come sport estremo sarà, in ogni caso, troppo tardi. Non tanto la carreggiata dotata di semaforo, quanto l’altra metà che per motivi poco chiari ne è sprovvista, lasciando libero sfogo all’anarchia. Forse così, giusto per lo sfizio di mettere un po’ di strizza ai pedoni e per rompere le palle agli automobilisti che a volte rimangono imprigionati: dovreste vederli, questi ultimi, quando per un pelo non riescono ad anticipare la guida di grupponi di turisti con la chioma bianca e i calzini dello stesso colore. Scena classica: in alto la bandierina del capobanda e avanti tutta, lento pede, una comitiva che era disposta su quattro diversi bus turistici, inonda le strisce proprio un attimo prima in cui lui voleva passare. Poi mentre procedono gli ultimi villeggianti e l’automobilista assapora l’euforia per la folla smaltita, ecco che in senso opposto, senza neanche guardare, un ragazzo con lo sguardo fisso sullo smartphone impedisce ancora il movimento all’auto. Sembra in ritardo, ma alza lo sguardo per un impercettibile attimo, giusto per carpire le intenzioni velleitarie dell’automobilista e accelerare il passo nel momento esatto per impedirgli il movimento. “Tacci tua”, sembra urlargli l’automobilista mentre lo indica con la mano. Un istante dopo prende il telefono, lo sblocca e lo butta sul sedile accanto, come se dovesse impiegare in qualche modo quei secondi che altrimenti gli sembrerebbero vita sprecata. Anche perché dopo l’accelerata il ragazzo rallenta il passo e rischia di far trascorrere altri attimi fondamentali. L’automobilista scalpitante finalmente è pronto a premere l’acceleratore prima che gli venga un crampo ma no, neanche stavolta! Ecco una bici tagliare la piazza su quelle stesse strisce. Aridaje. Forse ci siamo… no, un’altra comitiva, anche se meno numerosa, è in procinto di inondare la strada. A quel punto l’automobilista non ne può più, va di gas, fa una lieve sgommata, manda tutti affanculo e si fa un’accelerata di svariati metri. Venti, non di più. Poi va incontro ad altri intoppi al traffico: uno ancora su piazza Venezia e poi uno su Via 4 novembre. Ma lasciamolo pure così, immaginandolo inveire contro gli esseri umani e esternare pensieri coliandreschi: “città di merda, ufficio di merda, vita di merda”. Così, tutti giorni, mille volte al giorno.
Ma torniamo a noi. Passando davanti al Vittoriano e al Milite ignoto, mi ero lasciato la piazza e poi Via del Corso sulla sinistra e intrapresi Via dei Fori imperiali in direzione Colosseo. La strage di Nizza era ancora di là da venire e quindi i veicoli non dovevano fare lo slalom tra possenti fioriere e mezzi dell’Esercito. I gabbiani reali erano al solito i padroni del cielo, fortunati a poter godere d’una vista privilegiata sopra la Grande bellezza, ma poco riconoscenti a ripagarla con le loro corpose evacuazioni. I simpatici piedi palmati, la mole importante e il piumaggio bianco li rendono più amabili dei detestati piccioni. Non deve pensarla allo stesso modo quella ragazza che stava per addentare un pezzo di pizza ma se l’è visto portar via da un volatile rapace che le ha mostrato in faccia la sua apertura alare e l’ha lasciata pietrificata. Forse si trova ancora lì in quella posizione, con la mano a pochi centimetri dalla bocca.
Avanzando ancora avevo oramai alla mia sinistra la stupefacente Colonna traianea testimone d’antiche ed epiche imprese. Presto restò seminascosta dai pini marittimi, la cui maestosità aumentava la grandiosità dello scenario. Un albero così incantevole e pure così fragile. Una coppia di turisti probabilmente scandinavi cercava la giusta inquadratura tra i tronchi per un selfie con lo sfondo del foro di Traiano. Possedeva anche il selfie-stick. Il selfie-stick, perdio! Oltre, ancora sulla sinistra, la Torre delle Milizie a dominare la scena e a imporre un tocco di Medioevo in uno scenario di Storia antica. Quindi, sulla destra, il foro di Cesare. In circa venti minuti, dopo aver percorso anche i fori di Nerva ed Augusto, ero giunto alla fermata metro più vicina, Colosseo. Scusate se vi ho tediato un po’ con cosa incontro durante questi 15-20 minuti, ma è per ricordare a voi e a me stesso che Roma sarebbe prima di tutto questo e solo dopo tutto il resto: il caos e quant’altro. In teoria.
Dicevo, appunto, della fermata metro Colosseo. Ogni tanto ci penso su, quando non ho quella fretta di merda che abbiamo quasi in ogni istante della nostra vita, sempre a pensare a quello che dovremo fare dopo e mai a goderci quello che stiamo facendo sul momento (o se preferite, come disse quel tale di Liverpool, “La vita è ciò che ti succede mentre stai facendo altri progetti”). Rifletto sul fatto che io due volte al giorno, cinque giorni alla settimana, passo a pochi metri dal simbolo di Roma che quasi duemila anni fa era già lì, ai tempi dei grandi imperatori. E che persone da tutto il mondo non vedono l’ora di venire a vederlo mentre io ci passo sotto e a volte neanche lo guardo. Dovreste vederli, gli sguardi dei turisti che escono dalla metro e rimangono imbambolati di fronte ad esso: una emozione contagiosa. Solo se sono fortunati, però: spesso, infatti, uscendo dalla metro Colosseo che si trova a venti metri dal Colosseo, il Colosseo quasi non si vede perché c’è una schiera di abusivi sui segway che devono rifilarti qualche tour. Un momento che avrebbe dovuto essere di magia e che invece diventa di ansia. Un monumento svilito per sciatteria.
Rifletto poi sul fatto che ci si dimentica spesso a cosa serviva, l’Anfiteatro Flavio, e a quali spettacoli raccapriccianti si andava ad assistere (“Non andate assolutamente a vedere il Colosseo: non è più eccitante da quando hanno abolito il pasto dei leoni” è una frase ascoltata in un film che mi ha fatto ridere). Ad avere la meglio, ad ogni modo, è adesso la sua maestosità e non la sua vecchia funzione.
Anche per me Colosseo oramai è, più che quello di un monumento, il nome di una fermata della metro. A tal proposito, il termine dei lavori in corso per l’altra stazione a questo punto credo coinciderà con la fine del genere umano. Ho preso atto del fatto che devo rinunciare al sogno proibitivo di poter vedere il Colosseo senza quelle brutture gialle che infestano tutta quella parte di Via dei Fori Imperiali. Ma soprattutto: ci serviva un’altra stazione della metro sotto al Colosseo? Mistero.
Quel giorno, ad ogni modo, ancora di più era solo una stazione della metro. Ma fuori la fermata c’erano decine di persone ad aspettare il bus e la cosa iniziò a puzzare.
“Metro guasta”, mi dissero.
“Ma come è possibile?”, chiesi retoricamente, “deve funzionare per sole tre ore ed è guasta?”.
“Navette sostitutive”, mi risposero. Un incubo. Navette sostitutive della metro in ora di punta. Quella era un’ora di punta in un giorno di sciopero. Provate a pensare a qualcosa di peggio: lo so, non vi viene niente.
Non ci si entrava, era inutile provarci. Meglio dirigersi verso un autobus, che però richiedeva un’altra camminata di una ventina di minuti, fino a Via del Corso. Quell’autobus, il 62, faceva più o meno tutto il tragitto casa-lavoro, anche se con impronosticabile tempistica.
Mentre andavo iniziò a piovere. Nonostante lo sciopero non avevo l’ombrello. Lasciata Via dei fori imperiali e giunto in prossimità degli edifici di Via del Corso notai, come sempre in quei frangenti, come i palazzi romani non abbiano i balconi e se non hai l’ombrello t’attacchi al tram (sempre se passa). Anche perché spesso, per principio, pure se ti stai facendo la doccia rifiuti categoricamente l’acquisto dell’ombrellino monouso da cinque anzi quattro anzi tre euro dei già citati venditori sorridenti (ok, lo ammetto: in casi estremi a tre euro si cede).
Aspettai un bel po’ e di fatto quando arrivò il bus era trascorsa ormai un’ora da quando ero uscito. Ero a meno di un chilometro dal luogo di partenza.
Il bus era pieno quasi come le navette sostitutive-incubo, ma in qualche modo entrai. Avevo un libro, ma non mi era possibile nemmeno soffiarmi il naso, figuriamoci tenere un volume in mano a distanza superiore ai dieci centimetri. Che poi chissà perché quando è notte i bus accendono quasi sempre solo le luci al centro e dietro e se capiti davanti le luci sono spente e non puoi leggere.
Io però ero un pendolare navigato e salii dietro. Ma tanto non potevo leggere lo stesso per la troppa gente.
Ad ogni modo, non ero di umore così cattivo, perché quando è sciopero dei mezzi a Roma comunque metti in conto di tutto, visto che anche quando non è sciopero dei mezzi, a Roma, metti in conto di tutto.
Rassegnàti come me ce n’erano tanti altri, ma c’era anche chi, nonostante tutto, era incazzato. Nonostante l’abitudine, s’intende. L’abitudine al disservizio che col tempo ti fa accettare un po’ tutto: il guasto alla metro, le navette sostitutive, gli autobus che non passano perché bloccati da un’auto in doppia fila, quelli che non passano nonostante la app dice che passeranno, quelli che non passano e basta, quelli che passano ma tanto non puoi salirci. E all’epoca non era ancora giunta l’estate 2015: la lunga calda vergognosa estate dei mille guasti anzi scioperi bianchi anzi boh, che come mai prima ha fatto bestemmiare un po’ tutti, senza che nessuno capisse se alla fine si fosse trattato o meno di scioperi bianchi.
“E’ corpa de Marino”: dicevano un po’ tutti così. A un certo punto lo dicevo anche io. Ho smesso di dirlo quando ha avuto contro tutti, ma proprio tutti. Non voglio politicizzare il racconto, quindi non dirò che alla fine l’hanno cacciato via in modo orrendo nel merito e ancora di più nel metodo.
Dicevo dei rassegnàti, quindi. Sì, tutti così, schiacciati l’un l’altro. Il pomeriggio, quando non fa caldo, già è accettabile. Ma quand’è mattina e ti capita quello che dopo cappuccino e sigaretta ti sta col fiato a un centimetro e magari ti sbuffa in faccia il suo malessere per la folla? O l’odore di sudoriccio che inizia col primo caldo e finisce ad autunno inoltrato? E quelli che non si tolgono di dosso il loro simpaticissimo zaino?
La folla eccessiva e il disagio, tra l’altro, generano malsane e improduttive discussioni. Discussioni sul disagio stesso, appunto. Si parte dagli autobus e dagli scioperi e si finisce subito alla politica corrotta e inefficiente e magnacciona. E da un lato c’è chi accusa il popolo di viaggiare a scrocco e che il problema sono gli italiani e chi ci governa è lo specchio del Paese; dall’altro chi dice che il pesce puzza dalla testa e il popolo si adegua e basta. I grandi dibattiti. E poi il solito: i troppi immigrati, le colpe dell’Europa, Corona in carcere per due foto e i delinquenti veri fuori, il Vaticano come problema di Roma, la Juve ruba, ecc.
Il disagio rinfocola soprattutto discussioni su questi temi qua, trattati spesso a uno stadio più basso possibile. Instupidisce le persone, le persone instupidite finiscono per perdere il contatto con la realtà più lontana di un palmo da loro e a pensare quasi solo alla mera sopravvivenza, dimenticando il resto. Covano livore. Ti dicono che con la cultura non si mangia: te lo dicono a Roma, la città con più tesori del mondo. E capisci perché non sembrano esserci molte speranze. Se trascorri la tua giornata incazzato, no che non ci si mangia con la cultura.
Il viaggio, comunque, procedeva senza particolari inconvenienti. Sì, va be’, qualche polemicuccia qua e là per quelli che non dovevano scendere e erano sulle porte e quelli che dovevano scendere e non riuscivano ad avvicinarsi alle porte e quelli che salivano prima di far scendere: ecco, questa è un’altra categoria di persone che non comprendo e che spesso mi fanno venire voglia di avere il fisico di Bud Spencer e di portarmene cinque sei davanti al petto, con loro senza il coraggio di fiatare perché, voglio dire, chi oserebbe mettersi contro il Bud Spencer della situazione? Però ho il fisico più simile ad Olivia, quindi niente, quando ci capito mi limito al più a far notare i comportamenti errati in modo più o meno fintamente sereno.
Non capitò nulla di particolarmente seccante, fin quasi al traguardo. (Non come quell’altra volta in cui delle maestre salirono con i marmocchi sul bus per portarli in un museo e un signore si accanì con loro perché non dovevano portarli sul bus e la bimba vicino a me si mise a piangere. Non lo capiva, il signore, che quelle maestre si assumevano una responsabilità enorme pur di far trascorrere una giornata diversa ai piccoli. O come quell’altra volta in cui un signore disabile chiese alla signora distinta di sedersi al suo fianco. “C’è il cane”, disse lei con fermezza. “Ma sono invalido”, rispose lui incredulo, quasi scusandosi. “Si vada a cercare un altro posto”, fece lei, con un tono che era pure peggio di ciò che disse).
Quel pomeriggio, invece, quasi ero arrivato a casa. A poche fermate dall’arrivo iniziarono a scendere in parecchi e io avevo potuto finalmente spiccicarmi da una parete del bus, sul retro, con la quale ero giocoforza divenuto un tutt’uno. M’appoggiai alla porta di dietro e in quel momento vidi una ragazzetta che era anche lei vicino la porta balzare e andarsi a nascondere nel mezzo del bus, con un movimento di scatto. Mi sorpresi un attimo, poi la persi di vista, ché c’era gente tra di noi. Pochi secondi dopo mi comparve di nuovo vicino ed era proprio dove prima io ero spiaccicato sulla parete del bus, tra i tre posti di dietro e il resto del mezzo, ossia dove c’è una macchinetta obliteratrice solitamente impolverata.
Insomma mi fu davanti e in effetti non m’ispirava tutta questa tranquillità, ma va be’, le buttai un occhio cercando di non farmi notare e basta. Tentai finalmente di aprire il libro, ma alla fermata successiva – dopo la curva che dalla Nomentana nei pressi di Villa Torlonia porta alla splendida Via Ravenna – proprio mentre l’autista apriva la porta avvenne l’episodio impossibile da prevedere. Vi do un piccolo indizio, vediamo se afferrate: in qualche modo c’entra Anagni. Niente? Male male (soluzione in fondo al testo). Dicevo, ero lì tutto bello tranquillo che iniziavo a sentire il tepore e l’intimità di casa ed ero finalmente in grado di poter leggere quel c…, ehm, di aprire il libro, ma avvenne l’imponderabile: lei senza alcun motivo mi venne incontro e con la rapidità d’un battito d’ali di colibrì mi mollò una cinquina con tutta la forza che aveva, che per mia fortuna non era troppa. Tuttavia mi ritrovai a finire di sotto e l’autista pensò bene di chiudere le porte e ripartire. Secondo me, qualora avesse visto la scena dallo specchietto, avrà pensato che ero un maniaco. Io, per lo meno, al posto suo credo che l’avrei messo in conto. Ebbi tempo di sentire lei dirmi “E’ l’ultima volta che ci provi!” senza capire di cosa stesse parlando e di vedere un’altra ragazza con le mani sulla bocca spaventata per l’accaduto: mi consolò perché avevo dalla mia parte una testimone della mia innocenza. Credo di essere rimasto parecchi secondi come la ragazza del gabbiano e della pizza, a cercare di capire cosa fosse appena successo. La mia “pizza” è differente.
(Ve lo dico ora altrimenti poi mi dimentico: lo schiaffo di Anagni avvenne l’8 settembre 1303 da parte di Filippo “il bello” ai danni di papa Bonifacio VIII).
L’autobus ripartì e io dunque rimasi giù. Mi toccai vicino l’occhio, ché mi aveva preso con l’anello. Rimuginai sul fatto che qualcuno avrebbe potuto pensare ad una reazione causata da una mia provocazione. O sul fatto che, pazzia per pazzia, a questo punto avrebbe potuto pure ficcarmi una matita nell’occhio, che ne so. Fui abbastanza scosso sulle prime. Ovviamente non avevo idea di chi fosse la tipa, spero mi crediate.
A raccontarla ha fatto molto ridere un po’ tutti, compreso ovviamente il sottoscritto. Lì per lì però non la presi benissimo. Mentre mi incamminavo verso casa ripetendomi “ma cosa cazzo mi è appena successo?”, finii inevitabilmente per chiedermi chi me lo fa fare. Cioè, chi ce lo fa fare. Chi ce lo fa fare di accettare di vivere questa quotidianità di pendolarismo spietato (anche di gran lunga peggiore del mio, roba che a confronto mi sento un privilegiato, sia chiaro!), dell’homo homini lupus, del mors tua vita mea che sostituisce una pacifica convivenza in spazi comuni (troppo spesso trattati come spazi di nessuno anziché di tutti).
Chi ce lo fa fare di fare il pendolare in città o da fuori Roma a dentro Roma riducendo la vita a un sveglia-treno-lavoro-treno-cena-nanna (sostituire “treno” con “mezzi pubblici” o “auto”; oppure sostituire “Roma” con … eh, non lo so).
Sì, so che è una domanda retorica. Epperò…!
Forse era una considerazione estremistica dovuta al momento, fatto sta che mi venne in mente un amato personaggio uruguayano affermare che “non veniamo al mondo per lavorare o per accumulare ricchezza, ma per vivere”. E di vita ne abbiamo solo una. Per questo sarebbe di vitale importanza guadagnare nella qualità del nostro tempo. E se di tempo nel tragitto casa-lavoro ne spendiamo tanto, troppo, allora tutti dovrebbero impegnarsi nel renderlo migliore. Anzi, il migliore possibile. In un piccolo bar dove mi ero fermato pochi giorni prima avevo letto questa frase di Virginia Woolf: “Non si può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si ha mangiato bene”. Pensai che però non si può fare niente di tutto ciò se si è incazzati perché la quotidianità è una guerra civile per i mezzi e sopra i mezzi o in un’auto nel traffico a smadonnare mentre si contribuisce a inquinare ancora di più l’aria di merda che poi ci respiriamo.
Alla fine presi coscienza del fatto che era venerdì sera e io, a differenza dei poveri scioperanti, l’indomani non avrei lavorato. L’agognata tregua. Finalmente – pensavo – avrei potuto godermi Roma con la tranquillità che meritano le sue sconfinate bellezze!
Fake news! Non avevo letto, infatti, che l’indomani in centro ci sarebbe stata, a Piazza della Repubblica (che all’epoca vantava ancora una fermata metro, quando ancora le scale mobili non erano state definitivamente conquistate dal demonio), una manifestazione contro l’immigrazione da parte di un partito neo-fascita; un’altra a Piazza Vittorio contro quella di Piazza della Repubblica. Ancora, una a Circo Massimo contro il governo; una a Piazza del Popolo a favore del Governo. Ma anche una, a San Giovanni, contro il governo ma anche contro quella del Circo Massimo. Poi una a Piazza Venezia contro la presenza di topi in città; un’altra al Colosseo degli animalisti per la salvaguardia dei topi metropolitani. E un’altra dozzina che non rammento. Cameriere, champagne!