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Chiacchiere, divise e distintivo. Sembra questa la politica portata avanti dal Ministro degli Interni italiano in questo anno di governo sul tema immigrazione. Sulla stessa linea – meno roboante ma identica nella sostanza – del suo predecessore di centrosinistra Minniti.
Lo scorso novembre si è proceduto all’ennesimo sgombero, il 22esimo da quando è nato 3 anni fa, del presidio umanitario di Baobab Experience a Roma. Un esercito di blindati, ruspe e pullman che ha bonificato l’area. Senza tener presente che la capitale italiana non ha un piano di accoglienza municipale strutturato e che molte di quelle persone avrebbero diritto, in quanto migranti regolari, a molto di più che una tenda ed un aiuto occasionale della Croce Rossa e volontari vari.
Vicenda più recente, invece, è quella della nave ong Sea Watch 3, con a bordo 47 migranti rimasti per giorni al largo di Siracusa e poi fatti sbarcare nel porto di Catania. Già lo scorso giugno, proprio su questo blog, in occasione della questione Aqaurius, ci domandavamo se fosse davvero questa la soluzione al problema immigrazione.
Perché se è vero che il numero di immigrati che resta sul suolo italiano è inferiore alla media degli altri Paesi del continente, è vero anche che la gestione degli arrivi sui nostri confini e l’esatto monitoraggio di chi vive sul nostro territorio rimane un problema. Un problema indirettamente collegato alla domanda di sicurezza sia sociale che economica. Lo abbiamo visto, ad esempio, con la tragica uccisione di Desiree Mariottini o con l’operazione Dionea avvenuta nel nostro territorio. Storie di immigrati con permesso di soggiorno scaduto, persone invisibili che per lo Stato non risultano da nessuna parte, ma anche storie di italiani che fanno business sulla pelle di rifugiati, persone che hanno affrontato ed affrontano enormi difficoltà.
Dobbiamo ritrovare una consapevolezza – esistente a livello internazionale – che non può essere questa la soluzione al problema. Che mostrare i muscoli ad un’Europa troppo spread e poco Unione non sia la via giusta. Che esistono altri mezzi. Che la guerra ai trafficanti di morte non si fa così. Che regolare i flussi migratori non significa lasciare a bagnomaria degli esseri umani.
Ma il governo dovrebbe saperlo. Dovrebbe sapere che la Libia non è un porto sicuro (anche se qualcuno prova a dire il contrario), dovrebbe sapere che gli sbarchi sono diminuiti ma la mortalità è aumentata, come dovrebbe essere a conoscenza del fatto che politiche di questo genere alimentano – anziché domare – le fiamme in Medio Oriente e nell’Africa subsahariana, così come dovrebbe sapere che decisioni così rumorosamente vuote sono un ottimo spot per la campagna elettorale che verrà o che già c’è, o peggio ancora che non è mai passata.