La selezione della classe politica e le elezioni primarie

di Giorgio di Perna

Ogniqualvolta, come quest’anno, ci si trovi alle porte di una tornata elettorale nei maggiori comuni italiani, torna in auge il tema delle cosiddette primarie. Da diversi mesi, anche se la notizia – per ovvi motivi, dovuti principalmente all’emergenza sanitaria e a tutto ciò che ne consegue – non trova spazio sulle prime pagine dei quotidiani nazionali, la scelta dei candidati a sindaco è terreno di scontro nelle ipotetiche coalizioni.

Tecnicamente, il senso delle elezioni primarie si individua nel proposito di cercare strumenti in grado di avvicinare i partiti politici alla società, nel tentativo di incoraggiare la partecipazione politica dei cittadini. Il ricorso a tale strumento ha costituito nel corso degli anni, quantomeno nelle intenzioni dei promotori, un modo per contrastare il declino dei partiti e la loro perdita di affidabilità, rinvigorendo la domanda di politica.

Il concetto di primarie, tuttavia, in molti casi è stato e viene utilizzato impropriamente: nel corso degli anni, infatti, sono state definite tali anche le elezioni per scegliere, con voto popolare e diretto, il segretario nazionale e gli organismi dirigenti del Partito Democratico, a partire dall’ottobre 2007. In realtà, questo istituto è utile per designare un candidato ad una competizione elettorale successiva: selezione di un candidato è quindi cosa differente da elezione ad una carica, anche nel caso di elezioni interne ad un singolo partito politico. In questa accezione bisogna inquadrare le primarie statunitensi e francesi poiché vengono utilizzate nel senso autentico del termine. In questi paesi, infatti, tale istituto viene utilizzato solo per la selezione di un candidato ad una carica monocratica, in particolar modo per gli aspiranti Presidenti della Repubblica. In Italia, invece, si è cominciato a parlare di primarie dagli anni ‘90, solo a seguito dell’istituzione dell’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della provincia (legge 25 marzo 1993, n. 81). Con questa serie di riforme ci si interrogò sulla necessità di ristrutturare il sistema partitico e di consentire ai cittadini di partecipare alla individuazione dei candidati, cosicché questi ultimi potessero godere della diretta legittimazione del popolo.

La disamina appena compiuta mette in luce il fatto che «per salvare i partiti, e difenderne comunque l’insostituibile funzione, le primarie possono essere oggi uno degli strumenti da cui i partiti stessi possono trarre nuove ragioni di vitalità»[1]. D’altronde, ai partiti e alle coalizioni conviene aprirsi alle primarie per riprendersi quei canali di comunicazione e di rapporto con la società, quel ruolo di mediazione, che le tradizionali forme di partecipazione politica non sembrano più in grado di assicurare. Si è visto, quindi, che i partiti sono ancora insostituibili in democrazia rappresentativa, poiché essi svolgono funzioni essenziali nell’organizzazione statale. Tuttavia, soffrendo i partiti di scarsa legittimazione, il pericolo di una chiusura oligarchica è molto elevato: se la centralità e la funzionalità del partito sono sempre attuali, si comprende come il ruolo di mediazione dello stesso non possa essere assicurato a discapito delle istanze dei cittadini. Così, il ricorso alle primarie sembra essere il giusto compromesso tra la rivendicazione della centralità dell’assetto partitico e la richiesta sempre più forte del coinvolgimento dei cittadini.

Alla luce di queste brevi considerazioni, rispetto alle modalità di disciplina delle primarie, si dovrebbe delineare un sistema che regoli le primarie effettuate da tutti i partiti e/o coalizioni elettorali stabili e le renda vincolanti rispetto all’esito. Ad oggi non esiste una legge statale che preveda compiutamente una disciplina del genere, ma si comprende come, da un punto di vista tecnico, le primarie hanno senso in un sistema maggioritario a collegio uninominale o in un sistema proporzionale a liste bloccate, ossia in quelle circostanze in cui  è necessario che l’elettorato scelga i candidati idonei a rappresentarlo.

È possibile, quindi, che le primarie siano l’effettiva manifestazione dei principi partecipativi, nella misura in cui esse trovino applicazione presso tutte le diramazioni dell’organizzazione partitica: ciò vale sul piano esterno, ossia quello della scelta dei candidati alle elezioni amministrative e politiche. Sul piano interno, ossia quello della elezione dei dirigenti di partito, il rischio è che dietro i proclami di principi partecipativi si nasconda una realtà oligarchica. Pertanto, al fine di rendere effettivo questo processo di democratizzazione all’interno del partito, è necessario far in modo che la rosa dei candidati da sottoporre alla prova delle primarie sia frutto di una selezione partecipata proveniente dal basso, e non di un’investitura calata dall’alto. Al fine di garantire la partecipazione effettiva degli iscritti nel procedimento di definizione del programma e della strategia di partito, ed evitare perciò derive personalistiche, non bisognerebbe limitare l’intervento degli iscritti al solo momento elettorale, perché si rischierebbe di ridurre la capacità del partito di farsi carico adeguatamente delle istanze collettive. La democrazia nei partiti richiede che il programma promani dalla base attraverso la riflessione e la discussione e che esso sia consegnato alla dirigenza democraticamente scelta, affinché questa si impegni a scegliere i contenuti della propria azione e li sottoponga al controllo e alla valutazione dei cittadini.


[1] Floridia A., Le primarie in Toscana: la nuova legge, la prima sperimentazione, in Quaderni dell’Osservatorio elettorale della Regione Toscana, n° 55, 2006, cit.

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