L’informazione tra oligopolio di quella “ufficiale” e giungla social

di Valerio Iannitti

L’incipit di un noir di qualche anno fa recitava: “Immagina un Paese dove tutto è nelle mani di pochi e molti si sono fatti bastare per tempo il loro niente… Immagina un Paese dove gli editori indipendenti se fanno male chiudono, se fanno bene si ritrovano acquistati dai grandi gruppi… Immagina un Paese dove sempre meno gente legge e gli unici libri di successo sono quelli pensati per il pubblico dei non lettori”.[1] Una realtà del genere, oggi, è assai poco improbabile e la lotta per una “editoria democratica” rimane uno dei fulcri per il buon funzionamento di un sistema democratico.

Allo stato attuale si può ravvisare come il numero di compagnie americane cui appartiene la maggioranza dei media americani, come si vede dalla tabella seguente, si sia ridotto a sei, mentre nel 1983 erano 60. Il rischio (per usare un eufemismo) è che la possibilità di scelta diventi una mera illusione[2].

Internet e i social sono in questo contesto una strepitosa opportunità per la democrazia ma anche un pericolo ulteriore. In un panorama di riduzione di centri decisionali che filtrano le informazioni, i social e in generale il web potrebbero essere un baluardo di pluralismo.

Tra le distorsioni, tuttavia, possiamo registrare le seguenti: le celeberrime fakenews, il c.d. clicbaiting e la dittatura degli algoritmi.

Si lascerà fuori dalle righe che seguono la questione, molto intricata, riguardante l’ultimo punto: basti ricordare che le reti internet finiscono ormai per conoscerci meglio di quanto noi stessi riteniamo di conoscerci e la tutela della privacy è sempre più ardua.

Ci si concentrerà, invece, principalmente sulle prime due questioni.

Le fakenews di certo non sono nate con i social. Dalla lettera falsa fatta circolare durante la guerra del Peloponneso nel V secolo a.C., che incriminava il generale spartano Pausania di essere passato dalla parte dei nemici persiani di Re Serse, alle note fialette che Colin Powell esibì a testimoniare il possesso (inesistente) di armi di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein, se ne possono raccontare all’infinito.

Cos’è cambiato allora con i social? Baricco non ha dubbi: “A patire sono soprattutto le élite, cioè quei gruppi di umani che per mestiere, ceto e vocazione hanno controllato per secoli il monopolio della verità”. La post-verità sarebbe un appellativo che, coloro i quali prima avevano il monopolio della verità, ora usano per denigrare i cambiamenti in corso[1].

Di fatto abbiamo un’informazione per così dire “ufficiale”, in capo a coloro che dovrebbero essere professionisti, che ha un’impostazione sempre più oligopolistica e che sa fare buon uso (pro domo sua) delle armi di distrazione di massa anche al servizio del clic-baiting (post su gattini et similia), e un’altra “liquida”, in capo a chiunque abbia una connessione ad Internet, con grandi potenzialità e altrettanti limiti.

Non tutto è relativo e non tutto può essere soggettivizzabile: qualsiasi opinione dovrebbe partire dai fatti. Assistiamo invece ad una “scomparsa dei fatti” che dovremmo invece custodire per bene per fondare su di essi opinioni, quelle sì, eventualmente diverse; mentre  capita sempre più di frequente che fatti non accaduti (o quanto meno non accaduti nel modo in cui vengono riportati) influenzino l’opinione pubblica più di altri episodi accaduti: si guardi alla martellante strumentalizzazione politica del caso Bibbiano, durata mesi.

Che fare allora? Qualcuno ha proposto di istituire una commissione parlamentare di controllo sulle fake-news; qualcun altro vorrebbe dare questo potere agli stessi social, già dotati ad ogni modo di una propria policy. Su questo punto uno dei casi più discussi, recentemente, è stato quello relativo alla clamorosa chiusura degli account facebook e twitter di Donald Trump, addirittura a titolo definitivo[2]. È corretto? È un bene per la democrazia?

Per rispondere alla prima domanda, è corretto nella misura in cui le piattaforme social sono dotate di una loro policy evidentemente (da tempo, a dir la verità) non rispettata dal Presidente uscente. È facile, di contro, notare come non sia l’unico a non rispettarla[3].

La seconda domanda è più complessa: è da considerarsi in ottica positiva il conferimento di tutto questo potere ad imprese individuali? Come si può limitare?

Con un siffatto potere, a ben vedere, non si farebbe altro che rendere ancora più potenti piattaforme che già lo sono, il che andrebbe oggettivamente a discapito dei principi democratici. Ma in che modo si può limitare e regolare l’attività di un privato? E chi lo deve fare, considerando che i social avranno pure una sede legale in un Paese, ma operano in gran parte del mondo? La questione, quindi, non riguarda solo la legittimità degli Stati Uniti di intervenire regolando in qualche modo i social (operazione assai delicata), ma anche le conseguenze che vi sarebbero al di fuori dei confini a stelle e strisce.Se invece ogni entità pubblica applicasse una propria policy, il rischio potrebbe essere quello di una balcanizzazione delle regole che oltre tutto potrebbe essere soggetta al cambiamento dei partiti di governo. Combattere reali o presunti pericoli per la democrazia (si tratti di fake o di incitazioni all’odio) con armi censorie in mano a privati, per quanto si possa vedere di buon occhio col caso specifico dell’assalto a Capitol Hill, non parrebbe in linea generale una grande idea (si direbbe che sia un “approccio orwelliano in capo a privati”, per usare un termine spesso abusato), a maggior ragione tenendo conto che attualmente ciò avviene in modo (inevitabilmente, vista l’immensa mole di dati) maldestro[4].

da quotidiano.net

Il dibattito su come contrastare le fake-news ha coinvolto anche il Parlamento europeo, dove vi è chi è favorevole all’autoregolamentazione e chi a provvedimenti legislativi, senza che per ora si sia giunti a nulla di rilevante.[5]

Una soluzione potrebbe essere quella auspicata già anni fa da Rodotà, che in verità la propose avendo maggiormente a cuore il tema della privacy, ma che si può ritenere utile anche a questi fini. Il costituzionalista italiano infatti proponeva la stesura di una sorta di Bill of rights di Internet, magari in sede ONU, coinvolgendo più Paesi possibili. Sarebbe sicuramente un’operazione estremamente complessa poiché ad occuparsene sarebbero chiamati Paesi con sistemi culturali, politici e istituzionali anche molto diversi tra loro (con conseguente assai difficile definizione di cosa possa considerarsi fakenews, cosa debba intendersi per “discriminatorio”, eccetera), ma ci si potrebbe lavorare.

La seconda problematica, peraltro ben correlata alla prima, è quella del clic-baiting. Spesso l’informazione di qualità è a pagamento mentre quella gratis è relegata nel migliore dei casi a intrattenimento e curiosità, nel peggiore rientra nella sezione prima esaminata delle fake. È il fruitore dei social a “fare il mercato”. D’altra parte, come ricordato in “The social dilemma” (documentario reperibile sulla piattaforma Netflix), “quando un prodotto è gratis, vuol dire che il prodotto sei tu”. Lo scopo  dei contenuti “acchiappaclic”, com’è noto, è quello di presentare le notizie con titoli accattivanti e sensazionalistici al fine di spingere l’internauta ad aprire la pagina di riferimento e magari condividerla. In tal modo vi è un guadagno in termini di pubblicità. Il motivo per cui questa problematica è collegata a quella delle fake-news è che spesso si distorce la realtà proprio per aumentare le condivisioni. La cosa peggiore  è che ci cascano anche le maggiori testate: si pensi all’articolo del Corriere della Sera del 21 gennaio 2021 dal titolo “Omar Sy è un Lupin nero. La storia stravolta del “politicamente corretto”[6]. Si tratta della serie Netflix dove “il nome del noto ladro è utilizzato a mo’ di specchietto per le allodole. Ma le storie sono completamente diverse, così come i contesti e i canovacci attorno a cui si snodano le vicende dei due protagonisti”[7]. Insomma, il politicamente corretto non c’entra nulla (come peraltro giura chi la serie, a differenza forse del giornalista del Corriere, l’ha vista sul serio).

Altro esempio: “Covid, morto volontario test vaccino AstraZeneca in Brasile”[8]. Il titolo è di Adnkronos ma se ne possono rintracciare altri in rete. Venti giorni dopo la stessa testata preciserà: Covid Brasile, “Morte volontario non legata a vaccino”[9]. In realtà, fin dal principio non c’era nessuna certezza sulle cause della morte[10]. Quanto danno arreca un titolo allarmistico, e per di più non fondato, su un tema così delicato, quando va diffondendosi peraltro un nutrito gruppo di “no vax”, spesso anche male informati?

Un ultimo esempio, tra i tanti, vede ancora protagonista sfortunato il Corriere della Sera, che a cascata ha tratto in inganno numerose altre testate, laddove è stata diffusa, spacciandola per attuale, un’intervista del nuovo Ministro della Pubblica Amministrazione in tema di smart working dei pubblici dipendenti che in realtà era stata rilasciata mesi prima e in altro contesto[11]. A volte, la voglia di “fare notizia” fa perdere di vista la notizia stessa.

A cercare di porre rimedio ai fenomeni sopra descritti ci sono siti di debunking (spesso inevitabilmente tacciati anche di apparentamenti politici con questo o quel partito), che fanno un gran lavoro nel tentativo di migliorare la qualità dell’informazione[12].

La sfida contro la concentrazione del potere di informazione, gli algoritmi, il clic-baiting e il dilagare delle fake news (“ufficiali” e non), in attesa di migliori consigli, appare in salita, ma non può che essere combattuta, intanto, con il professionismo degli operatori dei media e con un più consapevole uso da parte del consumatore-fruitore di notizie[13].


[1] F. Prisco, “Bomba carta. Processo al Sistema delle concentrazioni editoriali”, Guida Editore, 2012.

[2] N. Rapp, A. Jenkins, Chart: These 6 Companies Control Much of U.S. Media in https://fortune.com/…/media-company-ownership…/

[1] https://www.wittgenstein.it/2017/05/01/baricco-post-verita/

[2] https://www.corriere.it/esteri/21_gennaio_09/i-5-motivi-cui-twitter-ha-chiuso-definitivamente-l-account-trump-puo-istigare-ancora-violenza-f0a6a370-523d-11eb-bd49-c1eb648dc155.shtml

[3] Se ne parla anche in questo articolo (che su altre questioni – esempio: la programmazione anzitempo della “purga” che non pare basata su nulla che non siano mere supposizioni; l’accostamento tra l’assalto a Capitol Hill e le manifestazioni di BLM – risulta ben meno condivisibile): http://www.atlanticoquotidiano.it/quotidiano/la-purga-anti-trump-programmata-da-mesi-i-social-media-si-fanno-censori-ma-occhio-a-chi-e-come-vuole-regolarli/

[4] Cfr. https://www.valigiablu.it/facebook-censura-diritti/?fbclid=IwAR0EJm1nXRbWnh2DJ0p2SlxmHOTGDOqd1nToaxEu695CYGuSWu6ObTxuQiQ,

[5] https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/eu-affairs/20170331STO69330/come-contrastare-il-potere-della-disinformazione

[6] https://www.corriere.it/spettacoli/21_gennaio_20/successo-lupin-nero-281d59fc-5b26-11eb-998b-12ca609f8cfa.shtml

[7] https://www.giornalettismo.com/lupin-nero-corriere-della-sera/

[8] https://www.adnkronos.com/covid-morto-volontario-test-vaccino-astra-zeneca-in-brasile_UtMHoaM0GBa4Jw353N5qD?refresh_ce

[9] https://www.adnkronos.com/covid-brasile-stop-a-test-vaccino-cinese-incidente-grave_4DqRjrsbJj5vDNjrAW78Mj

[10] https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2020/10/21/morto-un-volontario-del-vaccino-astrazeneca-in-brasile-_49d56cc3-d933-4f08-9ebe-10d950ba0dfe.html

[11] https://www.secoloditalia.it/2021/02/clamoroso-scivolone-del-corriere-su-brunetta-lintervista-sullo-smartworking-e-di-otto-mesi-fa/

[12] Tra questi c’è Butac, che qui ad esempio illustra come arginare il clic baiting https://www.butac.it/clickbait-fenomeno-da-arginare/

[13] https://www.wired.it/attualita/media/2018/07/04/come-sconfiggere-fake-news/?refresh_ce=

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