MANETTARI E GARANTISTI, L’INUTILE DERBY DI MANI PULITE

17 febbraio 1992. L’arresto di Mario Chiesa e le sue confessioni scatenarono un terremoto: detenuti eccellenti, drammatici suicidi, partiti dissolti, crolli finanziari, nuove elezioni. È Mani Pulite, la fine della Prima Repubblica, di un sistema che non poteva non sbriciolarsi data l’insostenibile puzza di sporco che lo caratterizzava.

I rampanti gestori delle finanze pubbliche dei partiti finirono uno dopo l’altro in galera. La maggior parte di loro contribuì a svelare la spartizione di appalti e la fissazione delle percentuali. Facevano appello ai costi della politica.

Non è possibile un’apologia di Mani Pulite: certi protagonismi, certe durezze, certe esposizioni gratuite alla pubblica gogna contribuirono a spaventare parte dell’opinione pubblica. Non è possibile, d’altro canto, ritenere condivisibili la frase del suicida deputato socialista Moroni (“Se vuoi contare in politica devi portare soldi al partito”) o il famoso discorso alla Camera di Craxi del luglio 1993. In fin dei conti fu ammesso, nella più sacra delle aule del Paese, che tutto il sistema partitico otteneva finanziamenti illegali.

Chi ha paventato il pericolo delle toghe rosse è pronto ad accettare la rappresentazione degli anni delle tangenti come età dell’oro. Ciò non corrisponde al vero. Craxi, ed il sistema che lui rappresentava, rubava. E non solo per il partito. Berlusconi, figlio di Tangentopoli, non fu vittima di accuse infondate: il premier uscì da molti processi solo grazie a prescrizioni e condoni; per di più, in quegli anni, passava con disinvoltura dalla proposta di affidare gli Interni a Di Pietro ad attaccare il pool di Milano.

Comunque la si pensi, possiamo dire serenamente che Tangentopoli ha fallito. Nel giro di poco tempo si respirava un’aria di restaurazione e i due decenni che ne sono seguiti lasciano poco spazio ad una interpretazione diversa da questa. Anche qualora dal punto di vista della legalità si fosse andati verso un miglioramento (e ciò non pare vero dato che con la crisi dei partiti si è passati da una corruzione dominata da questi ultimi ad una corruzione dominata dalle lobby), lo spessore politico ed il senso di comunità che albergava in molti leader dell’epoca – e in molti cittadini – latita nei governanti dei nostri tempi.

Prima si è nominato Craxi, poche settimane fa si è ricordata la ricorrenza della sua morte. Al netto delle vicende giudiziarie, che tuttavia non possono essere accantonate per un giudizio esaustivo del personaggio e del sistema intero, Craxi aveva una statura politica che oggi si fatica a trovare in molti attori dell’agone politico. Gli va dato atto che la gestione dell’affare Sigonella, nell’85, è stato un barlume di sovranità nazionale militare; gli va dato atto di non essersi accodato passivamente ad un ordine del mondo americanocentrico (si pensi alle denunce dei golpe USA in America Latina, al sostegno dei dissidenti anticomunisti nell’est Europa, all’appoggio a Gheddafi in Libia); gli va dato atto di aver proposto delle ricette di un certo dinamismo economico (si pensi al taglio della scala mobile per frenare l’inflazione); gli va dato atto, nonostante la ruvidezza del personaggio che non lo rendeva simpatico, di essere stato un politico con una visione.

Senza calcolare il derby tra quelli che lo condannano come il male assoluto e quelli che lo santificano, magari convinti che una sua riabilitazione possa per certi versi giustificare un certo modo di amministrare o di far politica oggi, va sottolineato quello che forse è il punto chiave: Tangentopoli si colloca nel periodo storico del crollo del muro di Berlino e lo sblocco del nostro sistema improntato al divieto di alternanza. In contemporanea si assiste ad un progressivo esaurimento dei flussi di spesa pubblica che hanno sostenuto e legittimato l’azione di governo e sottogoverno, oltre che alimentato in forme e metodi via via più aggressivi e spregiudicati il sistema della corruzione politica e personale. Va individuato, forse, qui lo spartiacque tra Prima e Seconda repubblica, sempre ammesso che quest’ultima sia arrivata.

One Reply to “MANETTARI E GARANTISTI, L’INUTILE DERBY DI MANI PULITE”

  1. Io posso dire che c’ero, ero militare a Roma e mi trovavo a Piazza di Spagna. In quei giorni ci fu la famosa pioggia di monetine all’uscita di di Craxi al Raphael. Posso dire che non c’erano già politici di spessore, e i pochi erano emarginati, lo stesso Scalfaro lo era, fu richiamato proprio perché aveva una schiena dritta come pochi. Ma gente come De Michelis non aveva niente da invidiare allla pochezza degli attuali politici. La fine dellla Prima Repubblica fu abbastanza indecorosa, ma quel Parlamento ebbe unsussulto di dignità reagendo anche al contemporaneo attacco della Mafia, che probabilmente questo Parlamento non ha.

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