Si può morire “dignitosamente”? La legge italiana ancora non lo sa

di Federica Pannone Siamo abituati a sentire parlare di emigrazione dettata dall’esigenza di cercare lavoro ovvero dalla necessità di fuggire da guerre o, comunque, da condizioni politiche e sociali tutt’altro che idonee a garantire alla persona un’esistenza libera e dignitosa. Tuttavia il gap tra scienze mediche e diritto mostra, oggi, un nuovo volto dell’emigrazione: quella finalizzata a morire dignitosamente. I casi alla ribalta della cronaca hanno visto come protagonisti Piergiorgio Welby, Eluana Englaro e, da ultimo, Fabiano Antoniani, noto come dj Fabo. Ciascuna di queste vicende ha stimolato dibattiti e riflessioni in ambito medico, religioso, giuridico e legislativo, in parte sfociati nell’approvazione della legge 2 dicembre 2017, n. 219 recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. La ratio legis, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2, 13, e 32 Cost., nonché degli artt. 1, 2, 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, è quella di tutelare il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona. A tal fine, viene disciplinato il consenso informato in relazione ai trattamenti diagnostici e sanitari e si introduce l’istituto delle disposizioni anticipate di trattamento, indicato con l’acronimo DAT. In sostanza viene riconosciuta la possibilità, ad ogni persona maggiorenne in grado di intendere e di volere, di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici, singoli trattamenti sanitari o scelte terapeutiche, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi. In altri termini, ciascuno può scegliere, ora per allora, di rifiutare le cure e lasciarsi morire. Trattasi, indubbiamente, di un grande approdo, ma non è ancora abbastanza per apprestare piena tutela a quei diritti che animano lo spirito della legge. Vita, salute, dignità ed autodeterminazione si scontrano con un vuoto legislativo derivante dall’assenza di disposizioni che consentano ai soggetti affetti da una patologia irreversibile – fonte di sofferenze fisiche e psicologiche, tenuti in vita solo grazie a trattamenti di sostegno vitale, ma capaci di intendere e di volere – di scegliere di morire senza ulteriori sofferenze, quindi nel più breve tempo possibile da quando questi decidano di interrompere i trattamenti che li tengono in vita. A tal fine si renderebbe necessario l’utilizzo di farmaci che anticipino l’evento morte. Si badi bene, l’unica soluzione prospettabile a seguito del rifiuto di cure è il decesso, pertanto, sia che si ricorra a sostanze letali, sia che non lo si faccia, la morte è evento certo; unica ma rilevantissima differenza si riscontra nella circostanza che nel primo caso, la persona, nel pieno delle proprie facoltà intellettive, verrebbe sottratta alla prigionia della sofferenza immediatamente, senza che sia atteso il decorso di giorni in vista del naturale decesso. Non solo, per il tramite dell’articolo 580 cod. pen. (rubricato istigazione o aiuto al suicidio) si punisce con la reclusione, da 5 a 12 anni, chi concorre nel suicidio altrui, determinando altri al suicidio, rafforzando l’altrui proposito di suicidio, ovvero agevolandone in qualsiasi modo l’esecuzione.  Nella fattispecie in esame ricadono, dunque, tutte le condotte di aiuto al suicidio, senza distinzione di casi. Sicché, anche se si accompagnasse la persona in un paese nel quale è possibile “morire velocemente”, si incorrerebbe in responsabilità penale. È questo il caso di Fabiano Antoniani, cieco e tetraplegico a causa di un incidente stradale, in vita perché nutrito ed aiutato a respirare, artificialmente. Dj Fabo è stato costretto ad emigrare in Svizzera, grazie all’aiuto di Marco Cappato, per morire dignitosamente. Cappato è oggi accusato di aiuto al suicidio. Della questione è stata investita la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul presunto contrasto dell’articolo 580 cod. pen. con gli articoli 2 e 13, primo comma, Cost., dai quali discenderebbe la libertà di scegliere quando e come porre fine alla propria vita, con gli artt. 25 secondo comma, 27, terzo comma, e 117, Cost. in relazione agli artt. 2 e 8 CEDU. A prescindere dalle numerose questioni prettamente giuridiche, ciò che preme sottolineare è che la Corte Cost., il 23 ottobre 2018, decide di non decidere, o meglio, rinvia al 24 settembre 2019, perché, preso atto della delicatezza della vicenda e della necessità di adeguare il diritto alla realtà (come mutata grazie agli sviluppi della scienza medica), invita il Parlamento ad occuparsi del suicidio assistito ed a legiferare in materia. Stante la necessità di punire l’aiuto al suicidio in vista della salvaguardia del bene vita, si rende opportuno sottrarre dall’area del penalmente rilevante tutte quelle condotte (come quella posta in essere dal Cappato) che, lungi dal concretarsi in una lesione dei beni giuridici tutelati, si traducono, piuttosto, nel rispetto degli stessi. I Parlamentari potrebbero condividere o meno l’esigenza prospettata dalla Corte Costituzionale, certo è che assumere decisioni che spaziano tra scienza, coscienza e fede non è mai risultato semplice. Tuttavia, a prescindere dalla diversità di vedute, che animano e animeranno i dibatti sul fine vita, viene da chiedersi: può considerarsi rispettoso della vita, della dignità e della libertà altrui, vietare a chiunque versi in condizioni assimilabili a quella di dj Fabo, di morire nel modo che si ritenga più dignitoso? Possono, le convinzioni dettate da ideologie personali o da logiche di partito, condannare una persona a soffrire ulteriormente? Non ci si trova, forse, a discutere di un caso in cui il rispetto dell’altrui esistenza fonda un diritto, quello a morire dignitosamente, che ognuno dovrebbe essere libero di esercitare (o meno) secondo coscienza? Non si può sottacere, infine, sulle conseguenze di un mancato accoglimento del mònito dei giudici costituzionali. Se, infatti, il legislatore non intervenisse, si andrebbe incontro a una dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 580 cod.pen. nella parte in cui punisce l’aiuto al suicidio prestato nei confronti di chi versi in condizioni simili a quella di Fabiano Antoniani. In mancanza, però, di una legge che regoli dettagliatamente presupposti e modalità di esercizio delle condotte di aiuto al suicidio lecite, vi sarebbe spazio per abusi che finirebbero per intaccare l’esigenza di protezione di tutti i soggetti vulnerabili coinvolti, come fanno notare gli stessi giudici. Allora, se non è rimproverabile un vuoto legislativo dovuto al mutamento della realtà, potrà essere sicuramente rimproverabile la mancanza di adeguamento della legislazione a queste, ormai, non più trascurabili situazioni al confine della vita.

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